IV domenica di Pasqua – Anno B


Prima lettura: Atti degli Apostoli 4, 8-12
«(…)  Questo Gesù è la pietra. Che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati».

Seconda lettura: prima lettera di San Giovanni apostolo 3,1-2
«(…) Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è ».

Vangelo: Giovanni 10,11-18
«In quel tempo, Gesù disse: – Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore, (…) Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le  mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me ed io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore (…) per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita per poi riprenderla di nuovo (…) Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».


In queste domeniche la liturgia ci propone alcuni brani tratti dal Vangelo di Giovanni dove Gesù parlando con i discepoli rivela la sua identità profonda. Il vangelo di oggi ripete l’annuncio che Cristo è morto e risorto attraverso l’immagine del pastore.
Gesù usa una immagine comune all’Antico Testamento che individuava il popolo di Dio nel gregge e Dio come pastore che lo conduceva.

Gesù però riproponendo questa immagine, ne dà una chiave ulteriore, lui dice di essere il pastore buono, non un pastore, ma il pastore, il vero e l’unico pastore. In lui si compie quella profezia di un Dio che guida il suo popolo e lo rende un unico gregge. (Cf. Ez 34).
Non solo, Lui aggiunge, “io sono il pastore buono”. Il termine greco kalòs, si può tradurre come buono ma vuol dire anche “bello”. Non “buono” dal punto di vista morale, come per dire gentile, premuroso, accogliente o affettuoso, ma buono nel senso di bello, cioè pienezza della manifestazione dell’amore di Dio.
È buono perché, e lo spiega, in opposizione al pastore mercenario, a quello che lo fa per profitto, come un lavoro pagato. [Cosa fa il pastore con le pecore? Perché un pastore deve avere delle pecore? Che se ne fa? Avete mai visto un pastore? E perché un pastore deve durare fatica a star dietro ad un gregge? Che cosa ci guadagna un pastore con le pecore? Che cosa produce il pastore? Principalmente il latte da dove ricava il formaggio e la lana.]
Il pastore di solito usa le pecore per la propria vita, costituiscono un bene, una cosa preziosa e le protegge anche, se ne prende cura perché loro sono una fonte di sostentamento.
Ecco Gesù è un pastore “bello”, non bello fisicamente ma bello perché è colui che dona la vita per le pecore. Non sfrutta le pecore, non ha bisogno del latte e della lana delle sue pecore, lui dona la sua vita alle pecore. Gesù lo dice cinque volte “Io dono, io do” e insiste su questo. C’è sicuramente il riferimento di Gesù al dono supremo della sua vita sulla croce, ma non solo. Donare la vita è l’azione di Dio. Questo verbo indica una vita che viene generata, quasi un atteggiamento materno, della madre che genera la vita del figlio. Donare e generare la vita nelle persone, è rendere le persone capaci di vivere, di dare sostegno alla vita di ognuno, di vincere e superare le paure, le difficoltà, i pesi. Gesù è colui che dona a noi la vita, ce la fa vivere, la rende piena, la rende completa, piena di significato. È colui che genera la vita e la dona a noi sino all’atto supremo di donare se stesso.
Lui che diventa il nostro nutrimento, in riferimento anche all’eucarestia. È davvero la Pasqua in cui lui dona se stesso perché noi possiamo ricevere la vita. Tant’è che l’immagine di questo pastore buono la troviamo spesso raffigurata nelle catacombe per ricordare come Gesù ci guida non solo nella vita, ma nel passaggio oltre la morte. È il dono della vita che non ha più fine.
Questo avviene attraverso un legame che è stabilito da Gesù sull’ascolto della sua parola. È un legame di conoscenza: io conosco le mie pecore, le mie pecore conoscono me, io conosco il Padre e il Padre conosce me. Si tratta quindi di un rapporto di intimità profonda, di conoscenza non superficiale, e conoscenza della vita nella piena partecipazione della condivisione.
Noi siamo chiamati a fare questa esperienza e per fare questa esperienza occorre, per prima cosa, diventare belli, buoni. Non come coloro che si mettono davanti allo specchio perché hanno bisogno di “farsi belli” per piacersi e accettarsi. Questa è una vita dove tutto gira intorno al nostro io.
Il nostro essere belli, invece, è la bellezza che scopriamo nell’altro, è la bellezza di quando tutta la nostra vita è decentrata ed è offerta, donata: questo è rendere la nostra vita bella, buona.

Possiamo condividere la stessa vita di Gesù con la conoscenza di lui che avviene attraverso l’ascolto della sua Parola: “le pecore ascoltano la mia voce”.
Questa è la condizione per riuscire a diventare un solo gregge con un solo pastore. Cioè una condivisione piena e totale con lui. È l’ascolto della parola, la capacità di viverla, di porla nel profondo del nostro cuore, di lasciare che questa parola ci interroghi, motivi le nostre azioni e ci permetta di fare esperienza di questa profonda comunione con lui.
Allora accogliamo questo invito, e lasciamo che la sua parola ci aiuti a vivere di questo amore, a sentire come il donare la vita, riceverla da lui e ridonarla a nostra volta, diventa la pienezza della nostra gioia, del nostro rendere bella la nostra vita.