V domenica di Pasqua – Anno B
Prima lettura: Atti degli Apostoli 9,29-31
«(…) La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero».
Seconda lettura: prima lettera di San Giovanni apostolo 3,18-24
« Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità (…) Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato (…)».
Vangelo: Giovanni 15,1-8
«In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: -Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti più frutto. (…) Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci (…) Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
Il brano del Vangelo di oggi è tratto dall’ultimo discorso di Gesù, prima di essere arrestato. È chiamato il discorso di addio. Ed è significativo che proprio quando lui sta per lasciare i suoi discepoli insista presso di loro affinché stiano legati a lui. Come dire: nel momento della difficoltà, quando sembra che lui non sia presente ci chiede di fidarci e di rimanere legati a lui. Lo fa attraverso un’immagine molto comune nella Bibbia, l’immagine della vigna. La vigna nell’antico testamento è raffigurata come il popolo di Israele, e il Signore è l’agricoltore, colui che si prende cura della vigna.
Gesù fa un passo ulteriore, dice che lui è la vite, e noi il tralcio che è legato alla vite. Pensateci: siamo la stessa pianta. Siamo uniti a Gesù nella stessa realtà e nella stessa vita. E non dice che lo saremo, ma lo siamo, già da ora. Siamo il tralcio legato alla vite, facciamo parte della stessa vite. Gesù insiste con questo termine: rimanete in me. Questo rimanere non è semplicemente uno stare fermo, ma è un condividere con lui la stessa vita. Lo dirà dopo: rimanete nel mio amore, cioè amare come lui ama, vivere come lui vive, guardare le cose come le guarda lui.
Rimanere in lui per portare frutto.
Qual è il frutto della vite? L’uva. E dall’uva? Il vino. E il segno del vino qual è? La gioia. Quindi il frutto è la gioia. Legati a Gesù per sperimentare la gioia. Gesù su questo insiste. Questo rimanere in lui è uno stare con lui anche nel tempo, nella nostra realtà, nella vita che viviamo, in una perseveranza che supera anche i momenti della difficoltà. Rimanere è un far parte della stessa realtà, lasciare che la sua forza, che la linfa vitale, agisca in noi e riesca in noi a esprimere la gioia, che è appunto il frutto di questa unione con lui.
C’è un altro termine interessante. Gesù dice che l’agricoltore pota la pianta perché porti più frutto. Ora quel termine “potare” è un termine che si può tradurre in due modi: purificare e/o potare, e Giovanni gioca proprio su questo termine. Dio ci purifica perché portiamo frutto, ripeto, che è la gioia. Il verbo non sottolinea il senso del tagliare, ma del ritrovare l’essenziale.
Quando Michelangelo doveva scolpire una statua, davanti al blocco di marmo lui diceva “La statua è già dentro, io sono solo quello che toglie ciò che c’è in più”. Ecco, Dio fa questo con noi, toglie ciò che c’è in più, per portare fuori la bellezza e la grandezza della nostra vita, della nostra gioia. Questo è il modo con il quale siamo chiamati davvero a ritrovare un po’ l’essenziale, ad abbandonare ciò che è davvero in più. Nella nostra smania di essere felici, non trovando niente che ci accontenta, molto spesso noi siamo portati ad accumulare, a moltiplicare le cose da fare. Gesù ci dice: no, provate a tagliare, a lasciar perdere ciò che è in più e a ritrovare ciò che è essenziale perché questo ci porta davvero a ritrovare la bellezza della nostra vita.
Gesù poi parla del frutto, che è la gioia, ma questo lo condiziona all’essere discepoli “Se porterete frutti sarete miei discepoli”. Noi pensiamo di essere già discepoli, di essere cristiani, veniamo in chiesa, perché si dice “noi seguiamo Gesù”, ma discepoli non lo siamo. Lo si diventa. Ed è tutta la nostra vita. Noi siamo chiamati ad imparare a diventare discepoli, siamo chiamati ad imparare a vivere come Gesù, insieme a lui, uniti a lui con la forza del suo amore.
E questo vuol dire imparare a non mettere noi al centro. Gesù quando parla riferisce tutto al Padre, “io faccio queste cose perché le ho viste dal Padre”. Gesù non si pone al centro dell’attenzione e vuole che tutti siano attirati al Padre. E lui fa le cose perché in relazione, in comunione piena con il Padre. Anche noi siamo chiamati a scoprire che la nostra gioia dipende dal decentrare la nostra vita, dal non avere l’io come riferimento di tutto il nostro agire, ma la relazione. Imparare a riconoscere gli altri come fratelli e sorelle.
È l’amore di Gesù che ce lo permette, che ci rende capaci di vivere nella comunione, nella condivisione. Allora noi siamo chiamati ad essere legati a lui, il portare frutto è la gioia che noi sperimentiamo nell’imparare la relazione con gli altri, nello scoprire la gioia che c’è nel donare la nostra vita. E Gesù aggiunge un’altra cosa: tutto questo è possibile se le mie parole rimangono in voi. Con la sua parola, Gesù comunica se stesso a noi, dona la sua forza e il suo amore. È la forza del Vangelo che ci permette di portare il frutto della gioia e del suo amore.