L’Evangelizzatore in San Luca
Carlo Maria Martini

«Gesù si avvicinò e si mise a camminare con loro». È potente il simbolismo di queste brevissime annotazioni. Mentre essi erano in situazione di confusione e di amarezza, Gesù si avvicina, quindi è lui che, come evangelizzatore, prende l’iniziativa di salvezza. Ancora una volta è in lui Javhè misericordioso che si avvicina all’uomo confuso, all’evangelizzatore messo in imbarazzo e che ha bisogno lui stesso di essere evangelizzato. «Gesù si avvicina e si mette a camminare al loro passo».
L’annotazione è meravigliosa: si mette a camminare al loro passo per un bel po’ senza dir niente. Così fa loro compagnia, si fa accettare come misterioso compagno di viaggio, discreto, non invadente, che non li obbliga ad abbassare il tono, a parlare sottovoce. Continuano a parlare perché Gesù sembra amichevole e, quasi naturalmente, lo immettono nella conversazione.
A un certo punto, però, Gesù fa una domanda: « Di che tipo sono queste parole che scambiate tra voi?».
Avrebbe potuto intervenire partendo dalla gloria di Dio, descrivendo la gloria di Dio venuto tra gli uomini, e in tal modo illuminarli in un istante e guarirli.
Invece il metodo è un altro: è il metodo progressivo dello stimolo, della domanda, del far venire fuori gradualmente il problema. Ecco Gesù, sapiente pedagogo evangelizzatore, che aiuta i due ad aiutarsi; non li sconvolge con lá sua intuizione profetica, dicendo loro che stavano sbagliando, ma piuttosto fa in modo che essi mettano in chiaro quello che hanno dentro, che prendano coscienza di ciò che stanno facendo e vivendo, che sciolgano i nodi interiori, oggettivandoli.
Gesù fa la domanda giusta; spesso succede, in questi casi, che uno precipita la situazione magari illudendo, cercando di distrarre, cambiando argomento. Ma facendo cosi spesso si chiude il discorso e, se qualche volta può andare bene per la banalità dell’argomento, altre volte è certamente sbagliato. Nel nostro caso Gesù capisce che l’argomento è profondo e li interroga sia sull’oggetto della conversazione sia sul loro stato d’animo: «perché siete tristi», o — secondo altre traduzioni — «si fermarono tristi». La parola produce immediatamente l’emergere della situazione di fondo che è la tristezza e i due discepoli non si possono più sottrarre alla domanda semplice e umana di Gesù.
Qual è la risposta? La risposta ha due momenti. In un primo momento è un po’ impertinente, quasi scostante: «tu solo straniero non sai queste cose». E Gesù, come se niente fosse, non tiene conto di questa prima rugosità, sapendo che le prime risposte spesso non sono quelle vere, sono quelle del riccio che si chiude, per non rivelare subito il mistero della persona. Gesù riceve la scortesia e la neutralizza nella sua pazienza, nella sua bontà e ridà corda al discorso.

Infatti, quando i discepoli si sono sciolti, resi di nuovo capaci di amicizia — prima stavano discutendo tra di loro, litigando, adesso sono riconciliati e si accordano subito sull’invitare quest’uomo a cena — si siedono a tavola ed ecco che Gesù si manifesta. Si manifesta con il segno, già da essi conosciuto, della Frazione del Pane che, certamente, per Luca, vuole indicare tutte le future manifestazioni di Gesù nella sua Chiesa nella Frazione del Pane. Gesù si mostra vicino a loro, con loro, presente. Questa manifestazione, questa presenza scioglie ogni dubbio, chiarisce le cose fino in fondo ed è così espressa: «Non ci ardeva forse dentro il cuore mentre ci parlava nella via e ci apriva le Scritture?» (v. 32). L’evangelizzatore Gesù non soltanto annuncia il kérygma, proclama il disegno di salvezza attualizzandolo con la sua persona, ma, ancora, riscalda il cuore dall’interno.
Questa è la caratteristica che più colpisce in tutta questa serie di fatti rivelatori della persona di Gesù. Non dicono: Gesù ha parlato bene, ha spiegato bene, è stato un buon predicatore, ci ha raddrizzato le idee; dicono: ci ha riscaldato il cuore, si è manifestato come l’amico capace di sciogliere il cuore amareggiato dalla vista di un disegno di Dio apparentemente inaccettabile. Tocchiamo, qui, un punto davvero molto importante.
Leggevo l’altro giorno nel libro «Il metodo in teologia» (Bernard Lonergan, Queriniana 1975) — là dove parla, appunto, della potenza dell’amore di Dio nella teologia — questa frase che mi ha colpito: «Il mondo è troppo brutto per essere accettato se non si ama». Se veramente uno si mette di fronte a certi fatti come quelli che succedono ai nostri giorni — i fatti di qualche tempo fa a Bologna, quelli in Oriente dove migliaia e migliaia di persone sono uccise e torturate — come può accettare questo mondo, come può ammettere che ci sia un Dio giusto?
È la grande difficoltà per molta gente e, in fondo, all’evangelizzazione si oppongono spesso queste domande: come è possibile credere a un Dio che permette simili cose, simili forme di mostruosità e di atrocità? Resta vero che noi possiamo spiegare che la colpa è degli uomini, che Dio ci ha creati liberi e, lasciandoci liberi, ci ha messo gli uni in mano agli altri per il bene e per il male. Evidentemente però gli interrogativi non vengono risolti se non — come in questo caso — dalla presenza di Gesù e dal suo Spirito che, sciogliendo il cuore, rimettono nella capacità di accogliere un disegno buono di Dio sul mondo e di donarsi, per questo disegno, come il Cristo crocefisso che per primo ha sofferto, ha vissuto su di sé queste tragedie e queste sofferenze.
Non è la logica perfetta di soluzione che conta, anche se potremmo riassumerla, ma è l’essere stati avvolti dall’amore di Dio che ci ha reso certi che Gesù — giustizia, verità, sapienza — vive ed è capace di dare vita a tutti coloro che sono stati schiacciati dall’ingiustizia. Qui tocchiamo l’estremo e delicato limite dell’azione dell’evangelizzatore. Se non è lui ripieno di questa potenza di Gesù amore, vivo, vita, difficilmente riuscirà con parole e con ragionamenti a sciogliere i cuori induriti dalla tristezza, dall’amarezza, dall’ingiustizia.